Canto d’amore per la terra

Canto d’amore per la Terra. Genesi, di Sebastião Salgado

Frutto di una profonda passione, Genesi non è un semplice reportage sulle meraviglie del Pianeta, bensì la sintesi e summa di un progetto decennale: canto d’amore per la Terra e i suoi abitanti.

La macchina fotografica è sempre stata per Sebastião Salgado uno strumento di presa di coscienza. Per realizzare un buon servizio bisogna crederci fino in fondo, sembra dirci con le sue scelte il fotografo brasiliano, da sempre propenso a indagare ciò che è ignoto.

Aveva 29 anni e la sua vita pareva indirizzata verso una promettente carriera economica quando cominciò a fotografare e, in breve, riconobbe che la sua vocazione non era rincorrere il fatto, svolazzare da un argomento all’altro, ma documentare la realtà con progetti di ampio respiro. Realizzare inchieste laddove nessuna attualità immediata le sollecitava, interpretando e trasformando così la tradizione del saggio fotografico.

Tutta l’opera di Salgado è volta a conciliare l’estetica con l’informazione, la militanza, l’impegno civile ed etico. Molti di noi hanno negli occhi le sue fotografie dedicate agli Indios, ai contadini dell’America Latina, alla carestia in Africa o la rassegna, realizzata tra il 1986 e il 2001, sulla fine della manodopera industriale su larga scala (La mano dell’uomo, Contrasto, 1994). Saghe planetarie che esplorano ciò che va scomparendo delle forme secolari dell’attività umana, interrogandosi sul significato di tale visione. Dai campi di canna da zucchero cubani fino alle acciaierie dell’ex Unione Sovietica, passando per le zone petrolifere del Kuwait, Salgado ci ha mostrato l’uomo nell’atto di trasformare il mondo. In altra sede, ci ha proposto le immagini e gli scorci di un’umanità in movimento, fatta non solo di profughi e rifugiati, ma anche di migranti colti nel loro viaggio verso l’ignoto, verso le immense megalopoli del Terzo mondo (In cammino; Ritratti di bambini in cammino, Contrasto, 2000).

E oggi parliamo di Genesi con le sue 245 immagini in bianco e nero, organizzate in 5 sezioni: il Pianeta Sud, I Santuari della Natura, l’Africa, Il grande Nord, l’Amazzonia e il Pantanàl. Nessun significato religioso nel titolo, ma tutto il senso di quell’armonia delle origini che ha permesso la diversificazione della specie: il prodigio di cui tutti facciamo parte. Come quella zampa di iguana che ha ormai fatto il giro del mondo e tanto ricorda la mano di un guerriero medievale.  

Un percorso espositivo che testimonia di un mondo “vivo” a ogni livello, illuminato dalla convinzione che minerali, vegetali e animali vadano avvicinati con lo stesso scrupoloso rispetto con il quale ci si approccia, o ci si dovrebbe avvicinare, agli esseri umani. Otto anni a percorrere il mondo a piedi, su piccoli aerei, barche, canoe e persino in mongolfiera. Vulcani, dune, canyon, ghiacci, foreste, santuari naturali, isole… alla ricerca di spazi incontaminati, dai più torridi ai più glaciali, dai più aridi ai più lussureggianti.

L’idea si affianca all’importante progetto ambientale che Salgado sta realizzando da un decennio in Brasile, in collaborazione con la moglie, Lélia Deluiz Wanick Salgado: Instituto Terra, volto a ripristinare una parte della foresta atlantica la cui distruzione cominciò con l’arrivo dei Portoghesi nel XVI secolo e proseguì con la deforestazione dovuta all’agricoltura, all’urbanizzazione e all’industrializzazione. Come racconta lo stesso ideatore, tale progetto mira a realizzare «un restauro ecosistemico» della terra (S. Salgado, Dalla mia Terra alla Terra, Contrasto 2014). E non di una terra qualsiasi si parla, ma di quella che Salgado conosce intimamente e racconta con affetto, il mondo dell’infanzia, luogo di ricordi e vissuti meravigliosi: le corse a cavallo fino al tramonto; le immense distese da attraversare spesso a piedi, seguendo le transumanze e indugiando con lo sguardo, imparando ad amare i cieli carichi trafitti di luci; le nuotate nei corsi d’acqua insieme ai caimani che, a differenza di quanto si dice, «non attaccano l’uomo».

L’avvicinamento del fotografo alla natura non può che essere graduale, empatico, lontano dall’ipotesi «che gli animali siano bestie senza cervello e senza logica». Nel progetto Genesi, Salgado non realizza un reportage come farebbe un entomologo o un giornalista, ma con lo sguardo pronto ad accogliere lo stupore per le meraviglie e bizzarrie del Pianeta, con l’attitudine a stabilire un rapporto con i suoi abitanti, superando la diffidenza di tartarughe giganti, iguane e leoni marini nella Galàpagos, oppure seguendo la migrazione di zebre e animali selvatici in Kenya e Tanzania.

Lo sguardo si sofferma spesso su scorci di un presente che richiama un tempo remoto, primordiale, come quando il fotografo coglie la quotidianità di popolazioni indigene ancora vergini: gli Yanomami e i Cayapó dell’Amazzonia brasiliana, i Pigmei delle foreste equatoriali del Congo settentrionale, i Boscimani del deserto del Kalahari in Sudafrica, le tribù Himba del deserto namibico e quelle delle foreste della Nuova Guinea. Anche in questo caso, Salgado si è avvicinato ai soggetti con gradualità, discrezione, lasciando che fossero le popolazioni stesse a offrirgli la possibilità e l’occasione di fotografare. Tutto ciò è avvenuto condividendo l’essenziale, le condizioni climatiche estreme e, spesso, la nostalgia di casa.

La lentezza appartiene alla fotografia e, anche se il mondo va velocemente, secondo Salgado «la vita segue un altro ordine di grandezza. E la vita va rispettata quando la si vuole fotografare». Il bianco e nero esprime la volontà di operare nell’ambito del simbolico. Il mondo è per Salgado un serbatoio di immagini significanti, attraversato da un alito epico, che chiede a chi guarda di cogliere l’incanto, persino dove sembra essere occultato, come nelle passate rassegne (tutti noi abbiamo in mente certe sue immagini del Sahel o dei centri di assistenza per bambini in Etiopia dove la miseria non riesce tuttavia a distruggere la bellezza e il tragico sembra svelare il sublime). Situazioni colte nel loro valore metastorico, soggetti accolti da raggi di luce e da una natura maestosa, a parlarci dell’umano che attraversa le epoche.

E anche noi, come Salgado, di fronte alle immagini di Genesi, torniamo alle origini della nostra Storia, scopriamo la nostra memoria ancestrale. Ci sentiamo molto vecchi, anzi, antichi, trasportati indietro di migliaia di anni. Con lo stesso bisogno di amare, piacere e vivere… ma con quella conoscenza della natura che, incautamente, negli ultimi millenni, abbiamo dimenticato.  

 

Lascia un commento

Assicurati di aver digitato tutte le informazioni richieste, evidenziate da un asterisco (*). Non è consentito codice HTML.

Lucia Valcepina

Scrittrice

Nel caso in cui ti perdi qualche informazione o vuoi solo darci un feedback, per favore sentiti libero di Contattarmi.

cookie policy

Foto di Fabrizio Padovani

www.luciavalcepina.it· Scrittrice ed editor - Contact (c) 2018 Lucia Valcepina
Mario Libera (web deaign)

We use cookies

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.